17 Maggio 2020
Car*
Non so bene come vada te e se da te anche sembra che la bolla pressurizzata della quarantena sia sulla via della decompressione, mano a mano che il caldo fuori aumenta e quindi, di pari passo o almeno con buone aspettative, aumentano le speranze di cancellare con un colpo di cassino tutto quel complicato calcolo delle probabilità che è la storia di questo virus, come si fa alla ricreazione con una brutta equazione che ha ammorbato la classe nell’ora di matematica.
La sensazione che ho io è di aver tenuto stretti in mano i fili di una rete fittissima, e che finché le mie mani restavano serrate anche tutto il resto del mondo restava chiuso su se stesso a trattenere il respiro con me, fermo finalmente, per la prima volta dacché me lo ricordo io, invece che costringermi a corrergli dietro, come uno che debba scapicollarsi a seguire il cane pazzo che tiene al guinzaglio.
Ora, io non vorrei tu pensassi che sia claustrofilia la mia o peggio, l’aver aspettato di godere un mezzo gaudio di proporzioni mondiali per patire un po’ meno il mio specifico disagio di proporzione umana, troppo comunemente umana per farne un dramma, o un dramma che pretenda di riuscire nuovo a qualche orecchio.
No: ma è come dirti, è aver avuto il senso finto di essere uno dei centri di quel mondo addormentato e che, se avessi fatto perno su di me puntando i piedi in un punto, e spostandomi in avanti un poco tenendo nelle mani quei fili, avrei potuto trascinare tutto con me cullandolo, e tornando poi coi piedi giù, restituirlo al suo precario equilibrio di nuovo, giusto il tempo di un respiro, il dislivello di una pancia che si alza e si abbassa insieme all’aria che la gonfia e la sgonfia.
Adesso, ora che tutti ci si dice che si può tornare in possesso della vecchia vita, io devo verificare la consistenza di questo possesso e forse con molto malcontento devo verificare che non è un conto in perdita: quante cose pensavamo, felici, perché quella era la felicità della dissoluzione incontrollata, indipendente da noi, eterodiretta da una catastrofe grande che ci travolgeva tutti, quante cose pensavamo che la quarantena avrebbe sepolto? Volevamo che si sgretolasse il superfluo, l’inutile, il residuo fisso di pensieri pesanti che dovevano essere soppiantati da quelli funzionali alla riscoperta del bello, dell’utile, del santamente poco e strettamente necessario. E poi? È tutto qui di nuovo, o meglio, qui come sempre e allora, ora che devo lentamente lasciar andar di mano i fili, li sento come le funi di una barca ormeggiata che si sciolgono e cadono e la barca cammina, ma io resto sul molo. E sono io che sono pesante di quello che non se n’è andato, o semplicemente non ho una barca che sia restata ormeggiata per me, ad aspettare me e quindi, tutti gli altri possono veleggiare e dimenticare e io no?
Se faccio perno su di me puntando i piedi, cosa trascino con me?
Il dottor Kien, il sinologo protagonista di Auto da fè di Elias Canetti, se ha qualcosa che gli turba i pensieri, la mette per iscritto sul suo taccuino intitolato a caratteri grandi SCEMPIAGGINI, e immediatamente se ne dimentica. Lascia il carico dove merita (che meravigliosa facoltà, decidere che qualcosa è scempiaggine e precipitarla tra le scempiaggini con tutta la potenza del giudizio e dell’arbitrio, senza appello) e la sua testa è pronta ad accogliere altro, l’utile, il dignitosamente necessario, quello che serve.
Ora, se così si potesse, nel senso, se tutto in una volta si potesse sviluppare una lesmotecnica così, ti immagini? È una parola che sto coniando adesso battendo i tasti, sto raffazzonando un lemma strappandogli un etimo. Che parola bella è, nel greco, lesmosyne? L’oblio generato dalle arti. Quella capacità della memoria di coprire, letteralmente, con altra memoria, memoria del bello che cala a seppellire il brutto e lo sconnesso.
A te piacerebbe?
Chiara
Illustrazione di Matilde B.
Puoi leggere le risposte alla lettera di Chiara cliccando qui –> https://www.epistolariovirale.it/le-lettere/tag/80-chiara